Intervista ad Alessandro Borghese
Indice articoli
Alessandro Borghese è uno degli chef e dei personaggi più in voga (di Real Time TV ndr). Alessandro Borghese ha conquistato il pubblico grazie alla sua capacità di realizzare piatti goderecci, ma anche per il suo modo di fare: spontaneo, diretto, sorridente, con una punta di genialità che non guasta mai.
Nonostante provenga da una famiglia raffinata – è figlio di Barbara Bouchet e dell'imprenditore Luigi Borghese – è un tipo piuttosto alla mano. Quando lo incontriamo, una sera di febbraio, si presenta insieme alla moglie e bastano un paio di caffè per farci parlare come due amici di vecchia data.
Parlaci dell'ambiente in cui sei cresciuto.
«Sono cresciuto in un ambiente stimolante, alla fine degli anni Settanta e dell'inizio degli anni Ottanta. Mia madre Barbara Bouchet era una sex symbol con varie copertine di Playboy alle spalle e io sono venuto su a pastasciutta e Playboy. Ricordo di aver sempre visto intorno a me molta energia, fervore nella vita quotidiana: uno stile di vita che un po' ho riassunto nel mio claim attuale, il lusso della semplicità».
Vale a dire?
«Che c'erano lusso, anche sfarzo, ma allo stesso tempo persone che si erano fatte da sole, a cui non era stato regalato niente. Mia mamma era un'immigrata cecoslovacca, mio padre uno scugnizzo napoletano che prima di sfondare vendeva arance al casello. C'era il senso dell'umiltà anche se con un giro pazzesco di persone: da Giuliano Gemma a Edwige Fenech, da Lino Banfi a Proietti, e poi Sordi, Martin Scorsese (mia madre in quel periodo girò Gangs of New York)… Venivano tutti a cena insieme a un numero imprecisato di fotografi. E anche se io ero spesso relegato in mano alle baby sitter, mi ricordo bene quella spensieratezza d'animo e la libertà di pensiero che oggi si è un po' persa».
Di quell'ambiente ricordi solo pregi o anche difetti?
«Quasi esclusivamente pregi. Innanzitutto non ho sofferto molto la figura di mia madre come personaggio pubblico, grazie al cielo ho avuto genitori molto presenti e intelligenti, che mi hanno insegnato l'umiltà, ma allo stesso tempo la possibilità di esprimere il proprio genio e sregolatezza. Poi il clima è stato stimolante. A casa avevamo sempre queste cene pantagrueliche piene di gente, io ho avuto la possibilità di viaggiare tanto, di frequentare una scuola internazionale dove in classe erano rappresentate 60 nazioni. Pensa che proprio in questi giorni vado in Nigeria, invitato da un mio vecchio compagno di classe che oggi lavora in ambasciata, per cucinare con il mio team a un evento. Gli aspetti negativi di quel genere di ambiente li senti se hai genitori che pensano a se stessi o se a casa non si parla. Ricordo invece che per noi la tavola era un momento di convivio, come nella cultura cinese e in quella meridionale italiana, un momento dove puoi risolvere molte cose».
Il fatto che tua mamma avesse fatto delle foto su Playboy ti ha mai creato problemi?
«A volte. Quando qualcuno a scuola mi prendeva in giro io chiedevo a mia mamma "Che devo fa'?" E lei mi diceva: "Digli che tua madre ha due belle tette e un gran culo, e che sua mamma non se le può permettere foto del genere". Se non ti fa crescere sano una risposta così…».
I tuoi ti hanno indirizzato verso il mondo dello spettacolo?
«No, mi hanno chiesto solo che cosa volessi fare da grande, con la massima libertà».
E tu cosa rispondevi?
«A un certo punto che desideravo fare qualcosa di manuale che rimanesse nel tempo. Esprimere me stesso in qualche modo artistico però senza fare l'attore».
Ricordi il momento particolare in cui hai scelto la cucina?
«Il periodo decisivo è stato quello tra la fine della scuola e l'inizio dell'esplorazione del mondo lavorativo, quando volevo capire se avessi delle doti. Mi sono chiesto che cosa facevo bene e cosa mi avrebbe potuto divertire. Io stavo sempre a cucinare. Quando mi sono reso conto che cucinavo gli ziti con la genovese più buoni di mio padre, la domenica mattina, ho capito che quella era la mia strada».
L'aspetto che ti piace di più del cucinare?
«Ti dà una botta di adrenalina e una soddisfazione immediata».
Quali sono le tue passioni?
«Quella gnocca di moglie, una come lei devi sposarla subito, i miei coltelli, le motociclette e il rock».
Mi fai un esempio di riferimento per le ultime tre categorie?
«I coltelli sto pensando a una mia linea personalizzata, per il rock tutto, dai Led Zeppelin ai Big Linda, di moto me ne piace più di una».
Quali?
«Innanzitutto quelle con cui correva mio padre, che era pilota. Harley, Guzzi, Suzuki, anche se purtroppo non ne ha tenuta neanche una. Poi ho una Triumph Bonneville, e una Headbanger che hanno appena realizzato apposta per me, perché recentemente mi è venuta la passione per le custom. Mi immagino sempre con la moto, un sacco di coltelli sulle spalle e pronto a lavorare ovunque io sia. Io amo il mito di Easy Rider e il senso di libertà che la motocicletta ti dà. D'altronde, sono nato in California…».
Per quale motivo voi cuochi recentemente siete diventati dei personaggi? È merito solo della Tv?
«Siamo stati relegati nelle cucine con il grembiule sporco di sugo per tanti anni, poi c'è stato il ribaltone e siamo diventati fin troppo di moda, tanto che ci sono molti ciarlatani in giro. Credo non sia merito solo della Tv, perché cucinare piace alle persone, rientra nella quotidianità, è una cosa grazie alla quale ti puoi rilassare. La gente si è rotta i coglioni di politica, vuole farsi due risate e imparare qualcosa di costruttivo. E forse adesso si è accorta di avere un grande patrimonio gastronomico che gli altri sfruttano meglio di noi».
Cioè?
«Tutto il mondo viene in Italia per mangiare, ovunque ci sono chef che hanno fatto i soldi con la cucina italiana. Era ora che anche noi cuochi del Bel Paese ci accorgessimo di ciò che abbiamo. Fino a poco tempo fa eravamo fermi a "Il pranzo è servito"…».
Pensi che esista un legame tra cucina e sensualità?
«A cucinare ci si diverte, ma non solo: è un atto d'amore, soprattutto se lo stai facendo per qualcuno. Non hai visto la mia ultima pubblicità? Sembro una via di mezzo tra Rocco Siffredi e Auguste Gusteau lo chef di Ratatouille».
Quindi la risposta è sì?
«Esiste eccome! Anche se penso non ci sia nessun segreto, che le fragole e le ostriche afrodisiache siano tutte cazzate… Ma questo legame c'è. Quando si cucina per qualcuno non bisogna cercare effetti speciali, ma la sincerità nel piatto. È importante informarsi sui gusti del partner, la parola d'ordine deve essere semplicità. E se a ciò che guardo nel piatto corrisponde anche il sapore, è fatta».
Cosa ti chiedono di più le persone su questo argomento?
«Che cosa posso fare a cena per sedurre una donna?».
E tu che rispondi?
«Che non si invita a cena una lei la prima sera, ma bisogna fare i compiti perché l'effetto sorpresa potrebbe regalare una delusione. Bisogna stare molto attenti la prima volta».
Tua moglie l'hai conquistata con il cibo?
«Con lei è stato facile perché mia moglie viene da una famiglia di ristoratori, è una donna curiosa, che ama cibo e vino in maniera smisurata. Io amo dire che è una camionista nei panni di una bionda. Per esempio le piace mangiare delle cose che per molti possono essere rivoltanti, come la testina d'agnello o le frattaglie. È un'ottima caratteristica, perché a mio modo di vedere se una donna a tavola è una da "questo no, quell'altro neanche", è difficile che sotto le coperte ti dia molte soddisfazioni».
Chi è il tuo punto di riferimento culinario?
«Più di uno. Io ho trascorso tre anni sulle navi, sono passato da Londra, San Francisco, New York, ma non ho trovato un solo maestro. Potrei dire a Milano Sergio Mei del Four Season, ma in generale i miei maestri sono stati tanti cuochi, anche con nomi non molto conosciuti, che hanno trascorso per una vita 18 ore al giorno in cucina per passione. E che mi hanno insegnato che il vero cuoco non si ferma mai, si fa un mazzo così, lavora a testa bassa per raggiungere un obiettivo, per cui ci vuole un sacco di tempo e pazienza».
Che cosa pensi di Gordon Ramsay?
«È un amico, apparentemente un pazzo scatenato che in realtà è una persona splendida. Anche se io non sposo la sua filosofia del "si lavora meglio sottopressione"...».
Qual è il piatto che ti riesce meglio?
«È un po' scontato dire quello che devo ancora fare, ma è così: penso che a ottant'anni ci sarà ancora qualcuno che avrà qualcosa da insegnarmi. Ma ti dico che fare una buona pasta al sugo non è così facile come sembra».
Se dovessi riassumere la tua filosofia?
«Direi che è necessario sorprendere, anche nella semplicità, perché c'è tanta omologazione in giro, e spesso chi mangia è distratto e non si sofferma su cosa sta ingerendo. Per esempio oggi ho mangiato dello street food, un dim sum cinese, nella zona di via Paolo Sarpi a Milano. Alcuni fagottini li hanno fatti con una crosta croccante sul fondo che mi ha fatto dire "io qui ci voglio tornare". Io voglio proprio questo, che dicano "la cucina di Borghese ha qual tocco in più, ci voglio tornare"».