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Le tre stelle della Guida Michelin

Indice articoli

La Guida Michelin John Colapinto, The New Yorker, Stati Uniti
- La Guida Michelin è la guida gastronomica più famosa del mondo. I suoi autori sono anonimi e temutissimi. Ma negli Stati Uniti, la Guida Michelin suscita ancora diffidenza perché sembra troppo legata alla tradizione francese. Per questo la Guida Michelin ha accettato uno strappo alla regola: far intervistare una sua ispettrice di New York

2009, Midtown Manhattan. Una donna sui trent’anni, con i capelli biondi lunghi fino alle spalle e grandi occhi castani, entra da Jean Georges, al piano terra del Trump International Hotel. Il ristorante, di proprietà dello chef Jean-Georges Vongerichten, è considerato uno dei migliori del mondo. L’arredo è minimalista, con pareti bianche e grandi finestre dal pavimento al soffitto. La donna si siede a uno dei tavoli al centro della sala. Abito azzurro con la scollatura appena accennata, un filo di trucco, neanche un gioiello. Il suo aspetto non ha nulla di particolare, e il suo comportamento tranquillo e riservato sembra fatto apposta per non richiamare l’attenzione: una caratteristica fondamentale per un’ispettrice della Guida Michelin.
Nata in Francia all’inizio del novecento, la Michelin oggi copre 23 paesi e rimane una delle guide gastronomiche più vendute nel mondo. Si basa sul principio che solo degli esperti anonimi e qualificati possono giudicare obiettivamente i piatti e il servizio di un ristorante.

Anche i grandi giornali come il New York Times vorrebbero che i loro critici gastronomici mantenessero l’anonimato, ma non succede quasi mai. Frank Bruni, che ha lavorato per il New York Times dal 2004a1 2009, nell’autobiografia Bornround racconta i suoi tentativi di camuffarsi usando pseudonimi, parrucche e baffi finti: uno sforzo diventato in gran parte inutile dopo la pubblicazione di uno dei suoi primi libri, con tanto di foto in copertina. Le immagini del suo successore, Sam Sifton, ritoccate per simulare possibili travestimenti, hanno cominciato a circolare su siti web specializzati come Eater mesi prima che assumesse l’incarico. La Michelin fa di tutto per proteggere l’anonimato dei suoi ispettori. Molti dirigenti dell’azienda non ne conoscono nemmeno uno. Gli stessi ispettori sono invitati a non rivelare di cosa si occupano neppure ai genitori, che potrebbero essere tentati di vantarsene, e hanno il divieto di parlare con i giornalisti.
Gli ispettori della Guida Michelin scrivono dei rapporti che poi sono sintetizzati nella tradizionale classificazione durante le annuali “riunioni delle stelle”, organizzate nelle varie redazioni nazionali: tre stelle, due stelle, una i stella o nessuna stella (i ristoranti che non meritano una visita non sono segnalati). Le tre stelle — come quelle assegnate a Jean Georges - sono molto rare. Esistono solo 26 ristoranti a tre stelle in Francia e 81 in tutto il mondo.

Nel 2005 la Guida Michelin ha fatto la sua prima incursione negli Stati Uniti pubblicando la guida New York City 2006 (in seguito sono uscite anche le guide di Los Angeles, Las Vegas e San Francisco). Da allora, però, l’azienda si è resa conto che il suo marchio fatto di gallica impenetrabilità e impenitente elitarismo gastronomico — negli Stati Uniti non si vende facilmente come in Europa e in Asia. La guida di Tokyo, per esempio, ha venduto più di centomila copie il primo giorno del lancio, nel 2007. A cinque anni dal debutto newyorchese, la Michelin non è ancora riuscita a scalzare il New York Times dal suo piedistallo di giudice supremo dei ristoranti della città nè a superare le vendite della guida Zagat, che per le sue classifiche si affida al giudizio dei clienti.

Per promuovere quella che il direttore generale delle guide, Jean-Luc Naret, chiama “una migliore comprensione” degli strumenti e dei metodi della Michelin, nell’autunno del 2009 l’azienda ha deciso di lanciare una nuova sezione del sito web, Famously anonymous, dedicata ai suoi ispettori. Ha aperto anche diverse pagine su Twitter per ricevere i commenti dei suoi lettori. Ma il segnale più chiaro di questa nuova politica di apertura è stata la decisione di farmi conoscere una delle ispettrici di New York.
Naret - un bell’uomo dal viso abbronzato e una preferenza per i vestiti firmati da indossare senza cravatta — ci raggiunge per pranzo. Viene spesso da Jean Georges, dove tutti lo conoscono. Per questo, anche se l’ispettrice finora non è stata individuata dal personale, Naret pensa che il suo anonimato sia ormai compromesso: non farà più ispezioni in questo ristorante. Come condizione per la nostra intervista, mi è stato detto che sarei rimasto all’oscuro di alcuni particolari della vita privata della donna. Quando le chiedo come si chiama, ride nervosamente. “Meglio non dirlo”, risponde. “Inventi qualcosa”. Suggerisco la prima cosa che mi viene in mente. “Maxime?”.

Naret sorride, poi, aggiungendo un tocco di segretezza al nostro scambio, comincia a chiamarla M. Maxime è di New York. Mi dice che le sembra “surreale” parlare con me del suo lavoro. “Dobbiamo sempre stare attenti a non far capire chi siamo”, racconta, ma ammette di aver rivelato al marito cosa fa per guadagnarsi da vivere. “È un avvocato, capisce il valore della riservatezza”. Con le altre persone rimane sul vago. “Cerchiamo di non mentire”, spiega. “Magari diciamo che lavoriamo ‘nel campo dell’editoria’ o cose così”. Il cameriere, un giovane in completo scuro, ci porta i menù. Chiedo a Maxime come sceglie quello che ordina.

“Prima cerco qualcosa che permetta di controllare la qualità degli ingredienti, poi un piatto più complesso, per vedere come se la cavano in cucina”, risponde. “Un ispettore non prenderebbe mai un’insalata. E difficilmente ordina una zuppa”. Decide di provare il foie-gras brùlée, “anche se di solito lo evito, per le calorie”. Maxime mangia fuori casa più di duecento giorni all’anno, sia a pranzo sia a cena. Ordina un piatto per ogni portata (da Jean Georges le portate sono tre, più il dessert). In questo modo, dice, “riesco ad assaggiare il maggior numero di cose possibile”. Non può lasciare nulla nel piatto. Tutto questo ricorda l’alimentazione forzata delle anatre che forniscono a Vongerichten il suo vellutato foie gras. Maxime, però, è fortunata: ha un metabolismo veloce che le ha permesso di evitare l’obesità, un rischio del mestiere. È tentata dal salmerino artico come piatto forte, ma non riesce a decidersi per il secondo antipasto. Il cameriere riappare e si offre di rispondere a evetuali domande. “Che mi dice del crostino di granchio?”, chiede Maxime.
“È granchio Peekytoe, servito con una chiffonade di dragoncello ed erba cipollina, cosparso di semi di sesamo bianco tostati al forno e condito con senape al miso, il tutto accompagnato da un’insalata di pere”, risponde. “Un piatto nuovo?”. “È nel menù da circa una settimana”.
Maxime chiede al cameriere di darle un minuto e si china verso di me. Se c’è una cosa che diverte da morire gli ispettori, mi spiega, è quando fanno una domanda e intuiscono che il cameriere ha inventato la risposta. Poi aggiunge: “Qui non succede mai”.


Il periodo nero della Guida Michelin

La prima guida Michelin fu creata dall’ingegnere André Michelin insieme al fratello minore, Édouard. Nati in una ricca famiglia di industriali di Clermont-Ferrand, nel 1895 i fratelli presentarono un nuovo tipo di pneumatico per automobili. All’epoca le macchine erano ancora una rarità in Francia. I fratelli pensarono che una guida degli alberghi sparsi nelle campagne del paese avrebbe incoraggiato le persone a salire su una macchina - provvista di pneumatici Michelin — e a mettersi in viaggio. La prima edizione, pubblicata nel 1900 e lunga 575 pagine, elencava in ordine alfabetico i paesi di tutta la Francia e quanto distavano tra loro, segnalava alberghi e stazioni di servizio e spiegava come cambiare una gomma. Nella prefazione André scrisse: “Quest’opera nasce con il nuovo secolo e durerà altrettanto”.

Nel 1933 i fratelli Michelin introdussero i primi elenchi di ristoranti e inaugurarono il sistema delle stelle per classificare la qualità del cibo: una stella indicava “un ottimo ristorante per la sua categoria”, due stelle “cucina eccellente, merita una deviazione”, e tre stelle “cucina eccezionale, merita un viaggio”. Altre pubblicazioni hanno provato a sfidare la Guida Michelin, ma senza successo. Per poter mandare i loro ispettori nei ristoranti di tutto il paese, i rivali dovevano accettare pasti gratuiti o inserire pubblicità gratuita nelle guide. Gli ispettori della Guida Michelin, invece, non dovevano scendere a compromessi. Un secolo dopo il primo brevetto per pneumatici di André ed Édouard, la Michelin è diventata una delle multinazionali più affermate del mondo. Grazie ai suoi profitti può continuare a pagare gli stipendi degli ispettori, le spese di viaggio e i conti dei ristoranti, che a volte possono essere molto salati: nel 2003 La Còte d’Or di Bernard Loiseau, un ristorante a tre stelle in Borgogna, proponeva un pollo farcito con carote, porro e tartufi per 224 euro. È questa indipendenza, insieme all’anonimato gelosa- mente protetto dei suoi ispettori, che dà alla Michelin la sua aura di incorruttibilità. Lo chef francese Paul Bocuse, che negli anni sessanta contribuì a creare la nouvelle cuisine e il cui ristorante vicino a Lione vanta tre stelle da ben 45 anni, ha dichiarato: “La Michelin è l’unica guida che conta”. In Francia ogni nuova edizione scatena sui mezzi d’informazione la stessa frenesia suscitata dagli Oscar. Settimane prima dell’uscita della guida, giornali e reti televisive ospitano dibattiti, ipotesi e voci senza fine su chi potrebbe perdere e chi potrebbe guadagnare una stella. Il verdetto, pubblicato all’inizio di marzo, assicura agli chef un trionfo pubblico o un’umiliazione altrettanto pubblica, seguiti inevitabilmente dalla crescita o dal calo delle entrate dei loro ristoranti.
La Guida Michelin Ma non tutti sono convinti che una guida davvero affidabile nasca dal giudizio di esperti anonimi e con un budget illimitato a disposizione. “Noi affrontiamo la questione da una prospettiva completamente diversa”, spiega Nina Zagat, che nel 1979, in un appartamento dell’Upper West Side, ha inventato con il marito Tim una guida gastronomica fatta dai clienti. Oggi la Zagat copre più di 90 città in tutto il mondo, è disponibile come applicazione per l’iPhone e rimane la guida più venduta ai ristoranti di New York. “Non abbiamo mai creduto che debbano esserci degli esperti a dirti cosa fare”, osserva Nina. “Mi piacerebbe sapere come vengono formati gli ispettori della Michelin”, aggiunge Tim Zagat. “Di solito il background degli esperti — per esempio i critici di punta dei grandi giornali-non è un segreto. Loro, invece, vogliono fare del mistero una virtù, e questo mi lascia perplesso. Come puoi giudicare la competenza di qualcuno se non hai la più pallida idea di chi è?”. Bernard Loiseau, chef e proprietario della Còte d’Or, una volta aveva detto a un collega che se avesse perso una delle sue stelle Michelin si sarebbe ammazzato. Diventare uno chef a tre stelle era stato lo scopo della sua vita. L’aveva realizzato nel 1991, diciassette anni dopo il suo arrivo alla Còte d’Or. L’ambito riconoscimento è stato seguito da una linea di alimenti surgelati con il suo nome e dalla Legion d’onore. Nel 2002, però, la cucina tradizionale di Loiseau aveva cominciato a perdere terreno rispetto allo stile fusion: gli affari peggioravano e i debiti aumentavano. Come ricorda Rudolph Chelminski nel suo libro Il perfezionista, in quel periodo il critico culinario Francois Simon aveva scritto su Le Figaro che Loiseau stava rischiando grosso con la Michelin. Lo chef, che da anni soffriva di attacchi di depressione, la prese malissimo. Ai primi di febbraio del 2003 la Michelin gli fece sapere che avrebbe conservato le sue tre stelle. Ma in un nuovo articolo, Simon scrisse che Loiseau e la sua terza stella avevano “i giorni contati”. Due settimane e mezzo più tardi, dopo una giornata di lavoro in cucina, Loiseau si uccise sparandosi alla testa. Aveva 52 anni. La morte di Loiseau ha segnato l’inizio di un periodo nero per la guida. Nel 2004 un ex ispettore, Pascal Rémy, ha violato la consegna del silenzio pubblicando un libro basato sul diario tenuto durante i suoi quindici anni al servizio della Michelin in Francia (Rémy era stato licenziato nel 2003 dopo aver annunciato il suo progetto e aveva deciso di querelare l’azienda). L’Inspecteur se met à table descrive quello dell’ispettore come un lavoraccio solitario e malpagato: doveva guidare per settimane di fila nelle campagne francesi, mangiando da solo e sentendosi oppresso dalle continue richieste di rapporti. La Michelin aveva sempre lasciato intendere di poter contare su un centinaio di ispettori per coprire tutta l’Europa. Secondo Rémy, invece, quando era stato assunto nel 1988 in Francia gli ispettori erano solo undici. Nel 2003, l’anno del suo licenziamento, erano scesi a cinque. La Michelin affermava che ogni ristorante stellato veniva controllato diverse volte all’anno, mentre Rémy ha scritto che passavano anni tra una visita e l’altra. Inoltre ha denunciato l’esistenza di favoritismi, soprattutto nei confronti del ristorante di Bocuse a Lione, che manteneva tre stelle anche se secondo l’ex ispettore tutti sapevano che continuava a peggiorare. Queste rivelazioni finirono sulla prima pagina di Le Monde. Derek Brown, all’epoca direttore delle guide, smentì le affermazioni di Rémy in un’intervista al New York Times, ma senza precisare il numero degli ispettori che lavoravano a tempo pieno per la guida in Francia. All’accusa di Rémy, che definiva intoccabili alcuni chef a tre stelle, Brown reagì con un argomento poco convincente: “Non avrebbe senso dire che un ristorante vale tre stelle se non fosse vero, perché i clienti ci scriverebbero per protestare”. Il caso Rémy era scoppiato durante l’ultimo anno di Brown alla direzione della guida. Dopo di lui la Michelin ha assunto il carismatico ed estroverso Naret, che ha lavorato per molti anni come albergatore ma non è un professionista della gastronomia. Si vanta di rilasciare più di duemila interviste all’anno, in cui dice ai giornalisti quanti ispettori lavorano per la Michelin in Francia (una quindicina), in tutto il mondo (novanta) e negli Stati Uniti (dieci). È stato Naret a lanciare l’idea di sbarcare negli Stati Uniti cominciando da New York. La prima guida, uscita nel novembre del 2005, stata realizzata da una squadra di cinque ispettori europei, che hanno esaminato oo ristoranti in tutti e cinque i distretti della città e ne hanno scelti oo. Alcuni osservatori hanno criticato la loro selezione definendola “francocentrica”. Il New York Times ha scritto che più della metà dei ristoranti con almeno due stelle “potrebbe essere considerata francese”. Tra quelli a una stella c’era l’ormai scomparso La Goulue, che un critico molto apprezzato di New York descrive come “un dinosauro, simbolo di certi bistrot superati e mediocri dell’Upper East Side”. La guida del zoo6 non ha dato neanche una stella a Eleven Madison Park (il ristorante di haute cuisine di Danny Meyer), a Craft (cucina statunitense contemporanea interpretata da Tom Colicchio, capo della giuria del reality show culinario Top chef) “e a molti altri apprezzatissimi ristoranti”, osserva il critico. “Solo dei francesi avrebbero potuto uscirsene con una cosa del genere”. Naret, che non voleva continuare a usare ispettori europei, ha aperto un ufficio a New York per preparare la guida dell’anno seguente, ricevendo 3.500 curriculum di aspiranti collaboratori newyorchesi.


Senza orario

Nata a New York, Maxime si è trasferita da piccola in una vicina “località di campagna”, che, dice, “ha una comunità di buongustai straordinariamente attiva”. I suoi genitori erano esigenti in fatto di cibo e la portavano spesso in città per provare ristoranti nuovi. “Ho mangiato falafel da Mamoun’s e bagel e salmone affumicato da Russ & Daughters prima ancora di assaggiare il burro di arachidi”, racconta. La sua famiglia amava anche viaggiare all’estero e Maxime ha scoperto le guide Michelin da piccola: “Le altre bambine volevano le Barbie. Io volevo mangiare in un ristorante parigino a tre stelle”. La sua passione non si limita all’alta cucina. “È un amore totale”, spiega. Dai Big Mac ai tacos dei “bugigattoli di Sunset Park”, dal cibo cinese di un “ristorante del Sichuan che è una vera topaia” agli hot dog dei sudici chioschi di Papaya King, tutto le strappa gemiti di piacere: “Quegli hot dog sono la fine del mondo!”. Linda Bartoshuk, docente di odontoiatria di comunità e scienze del comportamento alla University of Florida, studia le variazioni genetiche nella percezione del gusto da più di trent’anni. Analizzando la disposizione e la densità delle papille gustative sulla lingua, Bartoshuk ha individuato tre categorie di persone: i super degustatori, i degustatori e i non degustatori. La maggior parte degli esperti divino e di cibo rientra nella categoria dei degustatori (i super degustatori, a dispetto del loro nome, tendono a preferire i piatti insipidi perché hanno troppe papille gustative e sono eccessivamente sensibili al sapore. I non degustatori, invece, possono mangiare un risotto squisito e dire: “Niente di che”). Chiedo a Maxime se pensa di avere un vantaggio biologico che le permette di gustare e distinguere i sapori. “Si potrebbe dire che gli ispettori abbiano un vantaggio biologico, oppure che mangiano così tanto da diventare bravissimi a fare i confronti”, dice. “E poi non bisogna dimenticare la loro formazione, la formazione professionale”.
È obbligatorio avere un diploma alla scuola alberghiera o la qualifica di cuoco per diventare ispettore Michelin. Dal liceo in poi, Maxime ha sempre lavorato nel settore del cibo, del vino e della ristorazione. Ha preso un master in studi alimentari alla New York University e l’abilitazione come sommelier. Nel 2003 — all’epoca lavorava in un’altra città — aveva saputo che la Michelin stava reclutando ispettori per realizzare una guida di New York. “Ho cominciato subito a perseguitare Jean-Luc”, racconta. Durante una serie di colloqui preliminari è stata avvertita delle difficili condizioni di vita di un ispettore: i viaggi, il regime alimentare, i rapporti dettagliatissimi da consegnare in tempo, l’anonimato, la retribuzione modesta (“diciamo che non è un lavoro che fai per i soldi”, commenta). “I colloqui servono a spaventarti”, continua. “Devi impegnarti davvero. È la tua vita. Non è un lavoro a orario fisso”. E il cibo non è sempre da tre stelle. “I ristoranti stellati sono appena il dieci per cento della selezione”, spiega Maxime. “In genere andiamo in giro per l’Upper East Side o per Brookiyn e mangiamo nei ristoranti di quartiere”. Maxime, che vive a Manhattan, deve coprire alcune zone precise della città. Può passare settimane intere prendendo la metropolitana per raggiungere i punti più lontani di Queens ed esaminare solo ristoranti tailandesi, mangiando due pasti al giorno tutti i giorni. Di solito va da sola, perché se arrivasse con un amico o con il marito la cosa non sarebbe apprezzata.
Dopo aver superato la prima selezione, Maxime ha dovuto ordinare e consumare una serie di cene nei ristoranti di New York, sotto l’occhio vigile di esperti ispettori europei. “All’inizio non sai che fare, ti chiedi: che prendo, che mangio? Poi ti danno la lista dei vini pervedere quale scegli”. Dopo ogni pasto doveva scrivere una relazione in cui analizzava la sua esperienza, mentre un ispettore la sorvegliava. “E poi c’è tutto il lato missione segreta”, racconta. “Non sai mai il nome della persona che ti accompagna, non sai dove vi incontrerete fino a un attimo prima: ti chiamano e ti dicono ‘vediamoci all’angolo tra questa e quest’altra strada”.

Sensi attivati

Tutti i candidati per la Guida Michelin vengono mandati in Francia per partecipare al programma di formazione della Michelin. “Devi andare nella patria delle guide per capire le origini del sistema”, dice. I princìpi fondamentali comprendono la classificazione basata sulle stelle e quella basata sui coperti: la forchetta e il cucchiaio incrociati usati per descrivere l’ambiente, il comfort e il servizio di un ristorante.
I coperti vanno da uno a cinque, in ordine crescente di qualità, e possono essere neri o rossi (il rosso indica un servizio e un ambiente eccezionali). Dopo il soggiorno francese, i candidati completano la loro formazione in un altro paese europeo. Maxime è stata mandata in Inghilterra, dove si è presa l’unica intossicazione alimentare della sua vita mangiando della pancetta. Una volta tornata a New York, ha dovuto svolgere un apprendistato con un ispettore europeo. “Non ha senso mandarti in giro da sola se poi , quando dai un giudizio positivo, l’ispettore torna nel ristorante e dice che fa schifo”. L’apprendistato di solito dura dai tre ai sei mesi, ma il candidato può sentirsi dire in qualunque momento che non è all’altezza.
Il cameriere si avvicina e mette davanti a Maxime un grande piatto bianco. Al centro, posato su una tartina e coronato di zucchero caramellato, c’è il suo foie gras. Il tutto è guarnito con ciliegie, una spruzzata di pistacchi e una salsa trasparente al porto bianco, che circonda l’intera creazione come un fossato. Maxime osserva il piatto per qualche istante, come decidendo da dove attaccarlo. Con il lato della forchetta rompe un pezzetto della complessa struttura e la assaggia. Il piatto, che poi provo anch’io, attiva tutti i sensi di cui è provvisto un essere umano: il foie gras è morbido e denso come il burro, la sua consistenza setosa contrasta conio zucchero caramellato, che si spezza tra i denti e la lingua come una lastra di vetro sottilissimo, mentre la sua dolcezza è controbilanciata dalle ciliegie asprigne, il rotondo sapore aromatico dei pistacchi tostati e la corposità e il gusto del Porto.
“Squisito”, commenta Maxime.
Le chiedo cosa le piace.
“Non è tanto una questione di piacere o non piacere”, risponde. “È un’analisi. Mangi e cerchi di cogliere la qualità dei prodotti. In questo caso sono di qualità superiore. Devi chiederti se ogni singolo elemento è stato preparato in modo tecnicamente ineccepibile. Poi valuti la creatività. Funziona l’equilibrio degli ingredienti? La consistenza è buona? Il tutto si fonde armoniosamente o c’è qualcosa che prevale sul resto? C’è qualcosa che stona con qualcos’altro? Qui i pistacchi... insomma, è tutto perfetto”.
Quando arriva il secondo antipasto (il crostino di granchio con semi di sesamo tostati), affonda la forchetta nella densa striscia di salsa verde scuro che taglia in due lo stretto rettangolo del crostino e la porta alla lingua. Poi spalanca gli occhi.
“Questa salsa è davvero buona”, commenta. “Tipica di Jean-Georges, fa questi abbinamenti francoasiatici”. Mi dice che le serve qualche secondo per individuare gli ingredienti esatti, ma non me li rivela, sostenendo che Vongerichten probabilmente considera la ricetta “un segreto professionale” (in seguito ho saputo da uno dei camerieri che tra gli ingredienti ci sono la senape inglese in polvere e la salsa di soia.) “È talmente complesso”, dice. “Un piatto così ti rende felice”.
Arriva il salmerino artico, appoggiato su un letto di rémoulade di crescione e accompagnato da una julienne di mele. Maxime assaggia un boccone. “Perfetto”, dichiara con entusiasmo. “Da manuale”. Per gli chef di New York - soprattutto quelli che si sono formati in Francia - l’arrivo della guida Michelin è stato una benedizione e al tempo stesso una condanna. Eric Ripert, chef e comproprietario di Le Bernardin, un ristorante con tre stelle a Midtown Manhattan, ha frequentato una scuola di cucina in Francia, dove ha anche lavorato in vari ristoranti a tre stelle. “Molti giovani cuochi come me aspiravano a diventare chef a tre stelle”, racconta Ripert. “Quasi nessuno sognava di aprire un bistrot”. Quando Ripert è arrivato a Le Bernardin, nel 1991, la Michelin non era ancora sbarcata a New York e non prevedeva nemmeno dì farlo. “A volte noi chef- soprattutto i francesi, ma anche alcuni americani — ci sentivamo un po’ frustrati all’idea che non saremmo mai stati giudicati dalla Michelin”, ricorda. “Però eravamo anche più rilassati, perché la Michelin ti mette sotto pressione”.
Le Bernardin è stato uno dei quattro ristoranti di New York (con Jean Geoiges, Per Se di Thomas Keller e lo scomparso Alain Ducasse at the Essex House) a ottenere tre stelle nella prima edizione della guida Michelin, e le ha sempre conservate. Secondo Ripert, dopo la pubblicazione della guida le sue entrate sono cresciute del 18 per cento, ma è aumentata anche la pressione per conservare le stelle. “Oggi, quando mi sveglio e vado al lavoro, non penso alla guida né alle stelle”, mi assicura. “Mi concentro sulla mia giornata e su quello che devo fare per essere un bravo chef”. Però ammette che prima dell’uscita di una nuova edizione è molto nervoso. “Non ci penso fino a una settimana prima, e poi ci penso ogni giorno”, dice.
Anche Jean-Georges Vongerichten, nato in Alsazia nel 1956, si è formato in un ristorante a tre stelle in Francia, prima di trasferirsi negli Stati Uniti a 29 anni. E anche lui voleva sapere come lo avrebbero valutato gli ispettori, ma allo stesso tempo temeva il loro giudizio. Ho incontrato Vongerichten a un ricevimento organizzato dalla Michelin al Rockefeller Center, la sera in cui sono state annunciate le stelle del 2010. È un uomo elegante, con i capelli neri pettinati all’indietro e intensi occhi scuri.
Era “contento e sollevato”, mi ha detto, di aver conservato le sue tre stelle per Jean Georges, però ha aggiunto: “Abbiamo anche perso una stella —per JoJo”. JoJo è un ristorante dai prezzi contenuti che si trova sulla 64a strada. Ha ottenuto una stella nel zoo6, nel zoo8 enel 2009, ma ora è tornato a quota zero. Vongerichten è deciso a riconquistarla. “Chiederò il rapporto su JoJo”, mi ha detto. Su richiesta, la Michelin fornisce agli chef la scheda dell’ispettore sul loro ristorante. “Me lo studierò. Di buono c’è che hai un annodi tempo per migliorare! “. Al ricevimento, vestito in doppiopetto, c’era anche lo chefDaniel Boulud, un uomo basso e con i capelli scuri che andava avanti e indietro tra la folla accettando allegramente le congratulazioni di chi lo riconosceva. Quella mattina Boulud aveva ricevuto una telefonata di Naret: per la prima volta, il suo ristorante Daniel era passato da due a tre stelle. Secondo diversi esperti del settore, la promozione sarebbe dovuta arrivare molto prima. Daniel conquista regolarmente i primi posti nella guida Zagat e da anni ottiene il massimo riconoscimento del New York Times, quattro stelle. Durante il mio pranzo con Maxime le chiedo spiegazioni.
“Siamo stati molto criticati negli ultimi cinque anni per non avergli concesso le tre stelle”, dice. “Ma mancava ancora qualcosa”.
“In termini di coerenza?”.
“Coerenza e accuratezza”, risponde. “È un discorso tecnico: cucinare è una scienza. Il risultato è giusto o sbagliato. E questo è un dato obiettivo. Una salsa è preparata con accuratezza oppure no. Un pesce è cucinato con accuratezza oppure no. Nella cucina del Daniel c’era talento, c’era la creatività necessaria per ottenere le tre stelle, ma c’era anche molta incoerenza”. Quest’anno, aggiunge, “non c’è stato nessun dubbio, nessuna esitazione”. Nel 2009 la Michelin ha mandato otto volte i suoi ispettori al Daniel. Nella riunione per attribuire le stelle, ognuno ha definito il ristorante impeccabile.
Un paio di giorni dopo parlo con Boulud. Anche lui, come Ripert e Vongerichten, si è formato in diversi ristoranti a tre stelle in Francia. Si dichiara “orgoglioso e felice” di aver ottenuto la terza stella, ma sento che la sua adesione al sistema Michelin è meno incondizionata. Quando gli dico che secondo Naret e l’ispettrice il suo ristorante in passato mancava di coerenza e accuratezza, si risente un po’ e obietta: “Il mio ristorante risponde alle sollecitazioni dello chef ma anche a quelle del mercato. Per questo il menù cambia spesso, e i miei clienti lo apprezzano. Forse il mio successo è dovuto al fatto che continuiamo a lavorare in modo semplice e, a volte, molto spontaneo, senza pensare ‘Oddio, ma sarò davvero coerente con questo piatto? Siamo sicuri che sia un capolavoro di perfezione?”.


Pitture rupestri

Il commento di Boulud mi ricorda la critica più frequente rivolta alla Michelin: il suo approccio ai ristoranti e al cibo è troppo fedele a un modello di cura formale e tecnica, non applicabile fuori dalla Francia. “A dire il vero, quando vivevo a Roma la guida Michelin non mi era di grande aiuto”, mì ha detto Frank Bruni, l’ex critico gastronomico del New York Times. “I ristoranti segnalati dalla Michelin in Italia hanno spesso qualcosa di fastidiosamente francese”. Secondo lui, la guida di New York sta provando a superare questo limite. “A New York gli ispettori cercano di essere più aperti, forse perché la Michelin punta ad americanizzarsi. Hanno dato subito una stella allo Spotted Pig”, l’esclusivo ristorante-pub de’la chef April Bloomfield. “Negli anni seguenti hanno dato stelle a posti come Dressier, a Brooklyn”, un ristorante che rivisita la cucina contemporanea statunitense in chiave francese. “Insomma, si sforzano... Ma mi chiedo se una certa innata ottusità potrà mai essere eliminata dalla guida e dal sistema Michelin”. Poi ha aggiunto: “L’altra cosa che mi ha sempre lasciato perpiesso della Michelin è che pretendono di avere una scienza. Ma hanno anche un’anima? Quando descrivono il loro metodo mi chiedo sempre perché non lasciano spazio anche alle emozioni nel giudicare i ristoranti”. Nemmeno i coperti e le altre icone usate dalla guida lo fanno impazzire: “Quei cucchiai e quei simboli mi sembrano dei geroglifici, delle pitture rupestri”.

La Guida Michelin Il cameriere arriva con il dessert e posa un piatto rettangolare davanti a Maxime. Indica un’estremità, dove c’è un piccolo pezzo di dolce alla fragola: “Comincia a destra: fragole macerate nel kummel e Pan di Spagna al formaggio fresco con cuore di crème fraiche all’aroma di pera e vaniglia. A sinistra abbiamo un sorbetto di fragola con citronella candita e cialda alla lavanda, e infine una bibita di mirtilli freschi che può bere direttamente dal bicchiere”. Maxime lo ringrazia e il cameriere si allontana. Se questa fosse un’ispezione, subito dopo aver finito il dessert e pagato il conto Maxime andrebbe a casa e comincerebbe a scrivere il suo rapporto. In pratica si tratta di compilare un modulo fornito a tutti gli ispettori della Michelin. Bisogna elencare gli ingredienti di ogni piatto assaggiato e le loro particolarità. Bisogna classificarli in base a vari criteri, tra cui la qualità dei prodotti, la competenza culinaria, l’accuratezza tecnica, l’equilibrio dei sapori e la creatività dello chef. Poi bisogna compilare la sezione relativa all’ambiente, al cornfort e al servizio, che determina il numero di coperti assegnati al ristorante. “Considero tante cose: il servizio, l’affollamento, l’arredo, l’atmosfera, la lista dei vini, la lista del sake”, spiega Maxime. “Il sale, i bicchieri, ogni dettaglio osservato dal momento in cui chiamo per prenotare fino a quando esco dal locale, da come mi ha accolta — o non mi ha accolta — il direttore di sala alle caramelline che ti offrono a fine pasto”. Per recensire un ristorante come Jean Georges servono due o tre ore. Per un ristorante cinese ne basta una. Quando usciamo si sono fatte le tre. Non ricordo di essermi mai sentito così pieno. Chiedo a Maxime come passerà il resto della giornata. Mi risponde che quella sera deve lavorare: l’aspetta un ristorante in un altro quartiere. “Quale?”, chiedo. “Mi spiace, è un segreto”. • gc

John Colapinto è staffwriter del New Yorker. Ha scritto As nature made him: the boy who was raised as a girl (HarperCollins 2000).

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